Le Ragioni di una politica organica – Michele Campisi
LA MODIFICA DELLA CITTA’ STORICA E LE RAGIONI DI UNA POLITICA ORGANICA DI PROPOSTA
La fallimentare parentesi delle esperienze politiche ed amministrative della Giunta Alemanno (2008-2013), ancorché dar vita ad attività e investimenti orientati da interessi talvolta in conflitto coi “Beni Comuni” od in netto contrasto alle reali esigenze ed alle emergenze della città, è servita nelle esperienze successive, a favorire l’ambigua revisione di alcuni importanti processi riguardanti l’assetto e la qualificazione urbana. Molte strategie di “geografia” complessa che avevano guidato i programmi dell’ultimo cinquantennio sarebbero entrati in una silenziosa condizione di sospensione. I progetti e le intenzioni di grande portata, affannosamente tenuti in vita subito dopo la fine del millennio, sono lentamente scivolati nella retroguardia delle risorse incapienti. Ancora vivi nel prodursi dei nuovi dispositivi tecnologici affrontati per il non più differibile ammodernamento dei sistemi di connessione e mobilità, hanno finito per dileguarsi senza un vero perché; senza che – com’era avvenuto per la loro formulazione – vi fosse corrisposto un costruttivo e democratico confronto a carattere internazionale. L’attuale sindacatura pare non avere un programma preciso ed una veduta sulla reale consistenza di questo patrimonio di idee, studi e ricerche, dimostrandosi del tutto spaesata sulle sorti dell’area centrale e la sua pregressa questione.
Alcune volte, chiaramente motivate da opportunità strumentali, si è fatto vago riferimento al Progetto Fori – Appia Antica dell’epoca di Argan, Petroselli, nei termini ancor meno precisi dei contenuti discussi, negli anni settanta, da Adriano La Regina, Antonio Cederna, Italo Insolera e Leonardo Benevolo (ne riferisce un breve articolo su Micromega del 30 settembre 2016 Mariasole Garacci). La città degli ultimi quindici anni si è bloccata guardando “immobile” la spettacolare realizzazione della “Metro C”. Attesa come un’improrogabile esigenza di messa a sistema delle polarità geografiche e delle connessioni urbanistiche sempre più disordinate, dopo la realizzazione dei primi tratti, ha dato vita a indebite aspettative; a finalità escluse dal carattere della sua circoscritta funzionalità infrastrutturale. La commistione dei ruoli avrebbe fatto sì che dentro la sfera “amorfa” del meccanismo tecnologico fossero riversati propositi diversi, ben oltre il soddisfacimento dei bisogni di una mobilità convenzionalmente critica. Per decenni il centro di Roma è stato vittima di una gravissima e imbarazzante crisi che ha messo a repentaglio la già problematica reputazione dell’intera città. I cittadini, la comunità di base, gli abitanti dei quartieri storici, hanno subito il silenzioso processo di espulsione che ha comportato l’attuale alienazione identitaria. L’intera metropoli si muove senza più un punto di riferimento collettivo, una volta che i suoi luoghi di tradizione sono ormai occupati dall’esclusiva fenomenologia del diffuso mercato turistico. Quei “Progetti e strategie di grande portata”, necessari per allineare Roma alle capitali del mondo, si sono fatalmente arrestati. Infondate appaiono le giustificazioni addotte sugli effetti delle asfissie economiche, amministrative, messe strumentalmente avanti dalla politica incapace di collocare queste opere in un processo propositivo. Queste brevissime premesse sono indispensabili per capire gli anni immediatamente trascorsi e per sapere in che modo, alcuni punti nodali dello sviluppo si siano trasformati e modificati contrariamente alle reali esigenze, tale da averne determinato la vera e propria espunzione dai programmi più avanzati; come e quanto l’importanza e la storia della città ne avrebbe viceversa richiesto.
La naturale usura del Tempo non ha tuttavia intaccato alcuni aspetti fondati di quella visione della città al cui processo trasformativo presiedeva un disegno strategico ben delineato. Si è preferito rincorrere l’emergere di pressioni commerciali e le spinte più particolari, a volte anche a carattere diffuso, senza valutare il reale impatto che quelle scelte avrebbero comportato per l’intera città. La dimostrazione di tutto questo è l’elevatissimo livello di scarsa vivibilità che oggi vi si registra. Il declino e l’asfissia in cui si trova attualmente l’area centrale e gran parte del contesto che vi gravita dipende da molteplici fattori di abbandono quali: la perdita di dinamismo sociale, la mancanza di diversificazioni economiche, l’esclusivo orientamento di servizio al turismo delle attività, la mancata realizzazione di sviluppo creativo verso le naturali vocazioni dei “quartieri culturali”, l’inorganico assetto e l’assenza di tutela dei parchi urbani, degli spazi verdi e delle alberate, la caotica ed estemporanea mobilità di base ed in fine la scarsissima valorizzazione del Patrimonio comune. Per ognuno di questi temi credo che bisognerebbe dar corso a seri approfondimenti da cui far uscire proposte consapevoli. Sono particolarmente rivelatrici dello stato attuale alcune delle indagini che da più parti si producono e che a “pezzi e a bocconi”, estrapolando solitamente ciò che serve agli interessi dei relatori, compaiono sui giornali, nelle stringhe liberatesi dai social. In genere sono dati elaborati da società a carattere internazionale di un certo rilievo che andrebbero studiate con attenzione. Ma bisogna essere sempre cauti e valutarne le fonti, le finalità e le conclusioni. È nota un’indagine affidata e commissionata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo alla Boston Consulting Group. Anomalo in sé come attività ma, tuttavia legittima nell’intento di delineare quantitativamente ciò che tutti gli addetti ai lavori sanno da molto tempo. Ovvero: la parabola dei giacimenti. La ricchezza che deriva dal nostro Patrimonio non è quella meccanicisticamente deducibile, in modo pedissequamente diretto, dal gettito economico delle bigliettazioni. Molti e sempre di più sono profitti ed economie generate delle attività direttamente ed indirettamente indotte dai Beni Culturali; anche se a volte assunte in modo caotico e spontaneo. Si pensi alla grande diffusione del turismo povero e a basso impatto di spesa. Questo ha generato la trasformazione dell’abitato di base in albergo diffuso dando luogo, per la sua grande pervasività, al più grosso processo di mutazione urbana degli ultimi decenni. Gran parte dei vecchi quartieri se non l’intera città storica ha mutato la sua identità civica. Ad una giusta e logica contabilità bisognerebbe tuttavia affiancare, ciò che non si fa, l’elevatissimo costo sociale ed anche la spesa materiale generata dall’ambito pubblico, per lo più dovute alla totale mancanza di un governo del settore e dei suoi più significativi fenomeni. Il dato che è emerso da quella indagine, presentata alla fine del 2018 col cattivo gusto della retorica politica, è che l’impatto dei Beni nazionali sul PIL sarebbe di circa 24 miliardi di euro.
Il Ministero spende in bilancio 2,5 miliardi di euro
Sarà viceversa interessante ricordare che il gettito generato dai musei nazionali, che sono in numero poco meno di 400, non supera la cifra di appena 270 milioni di euro. L’intero Ministero spende in bilancio annuale circa 2,5 miliardi di euro. Lo studio non si ferma ad una semplice disamina dei dati. La Boston Consulting Group tiene piuttosto a precisare che dalle loro analisi emerge il fatto che i Musei italiani potrebbero generare circa 800 milioni di euro. Una cifra a mio giudizio impossibile da ottenere a meno che non si proceda ad una radicale trasformazione di musei e collezioni verso strutture con finalità totalmente diverse ed anche avverse all’indispensabile principio della Tutela. Italia Nostra che storicamente segue e vigila da almeno settant’anni le vicende dei Beni Culturali e le disagiate vicissitudini del Patrimonio nazionale, ha chiesto alla sede milanese del Gruppo, quali fossero stati i criteri adottati per la “denominazione” della condizione censita; come in genere è d’uso in tutte le attività di ricerca di questo tipo. Nessuna risposta è recapitata, nonostante reiterate siano state le richieste di chiarimento, limitandosi il tutto ad una “comunicazione stampa” ed alla corsiva pubblicazione dei dati sul sito del Ministero. Una ricerca dunque inutile perché scientificamente inutilizzabile, inverificabile che però lascia sui tavoli della comunicazione, in modo apparentemente distratto, quella cifra di 800 milioni foriera di giustificate necessità di una ulteriore ristrutturazione globale o di un tragico nuovo destino per il nostro Patrimonio, magari con l’accesso alla gestione daparte del Privato. Che il modello aziendale messo in campo dalle ultime riforme non abbia portato alcun frutto innovativo e di progresso è ben evidente. Basti a tal fine ricordare che nel primo riassetto del decreto Franceschini datato 2014, la nuova autonomia amministrativa dei Musei nazionali, ha sortito dall’intero comparto poverissimi risultati; anche semplicemente per quelli economici. Si nutre con l’ovvietà del caso, il dubbio che lo stesso incremento dei visitatori, ad esclusivo beneficio dei siti più famosi (Uffizi, Colosseo, Pompei, ecc.), non sarebbe stato parimente rilevante anche senza la trasformazione giuridica dei soggetti amministrati. Il nuovo assetto ha cancellato invece tutto ciò che si trova al di fuori dei grandi attrattori con una gravissima miopia politica ed altrettanto grave responsabilità sul piano di un’etica pubblica sacrificata al mercatismo. Risultato comunque mancato nella misura in cui i bilanci delle grandi istituzioni museali non sono in attivo ed il loro modello privatistico si risolve nell’assunto assolutamente anomalo di: costi di gestione in capo al pubblico (stipendi di funzionari e personale impiegato), ricavi trattenuti in cassa. Diversamente da questa indagine a soggetto, esiste da molti anni un’attività internazionale di ascolto delle aree urbane, prese nella loro globalità com’è giusto che sia nell’attuale dinamica universale. Il gruppo ARCADIS design & consulting è noto per le sue credenziali maturate nell’accertamento della Sostenibilità: processo e condizione sempre più importante per il destino delle nostre Comunità. Nei prossimi cinque anni l’Unione Europea ha destinato ben 50 miliardi di finanziamento a questo settore.
L’attuale dolorosa esperienza del Covid-19 ne ha dimostrato per altro l’importanza nell’ambito dei sistemi sanitari avanzati e nel deficit rivelatosi tra i livelli di interrelazione tra Pubblico-Privato; sistema naufragato in certi casi nella crisi di sostenibilità dovuta al principio ed alla scoperta di una inadeguata partnership del Privato consistente spesso in una imprecisa delega ed alle attività esclusivamente indirizzate alla ricezione della risorsa statale. Un sistema forte e funzionale si basa piuttosto su di uno Stato in grado di impartire direttive e garantire il rispetto e la disponibilità dei “Beni Comuni”. Questo può forse valere in ogni settore dello Stato. Ho analizzato, anche sommariamente, i dati relativi allo stato della situazione romana pubblicati da ARCADIS,. Ho confrontato le varie voci dell’indagine prendendo a base due anni: il 2016, il 2018. Ebbene ne risulta evidente la gravissima crisi in cui, in appena due anni è piombata la città arretrando nel ranking generale di ben diciotto posizioni: dal 22° posto accertato nel 2016, fino al 40° nel 2018. Nello specifico delle varie voci di cui si compone l’indagine, la sostenibilità sociale è scesa dal 33° al 37° posto (demografia ed educazioni le voci più compromesse); nella componente Green invece si è scesi dal 7° posto, riconoscimento della presenza di una campagna che arriva fin dentro il centro cittadino, al 24° posto; le attività di global financial center sono invece scivolate dal 49° posto al 62°. Sarebbe piuttosto lungo commentare queste cifre e lascio a chi le legge ogni termine di deduzione. Perché la città si sia modificata in questi termini e come possa avvenire un tracollo in modalità così esponenziale, rispetto alla “Sostenibilità”, non saprei spiegarlo nella sua più completa entità. Proverò piuttosto a capire il ruolo che potrebbero avere in un’auspicata risalita, nella sostanza dei fatti oltre che nella importante “imagerie” a carattere Cultural, i luoghi della città. I luoghi della Cultura, gli spazi museali e monumentali oggi hanno carattere di esclusive risorse commerciali, disponibili dentro economie semplicemente ed a volte inutilmente autarchiche; beni da sfruttare al minimo dei costi possibili. I bilanci delle gestioni si attestano su tre capitoli sostanziali: biglietto, libreria/gaget e servizi di ristorazione.
Quelle attività insomma che certamente generano ed hanno generato qualche risultato ma che mai superano gli altissimi costi della gestione. Per contro ancora meno promettenti appaiono le inchieste sui professionisti dei Beni Culturali; sul materiale umano impiegato a basso costo per la gestione delle attività. Solo il 34% di essi è in possesso di un vero contratto, mentre tutti gli altri vivono e lavorano in una forte condizione di precariato subordinato con livelli di retribuzioni bassissimi. L’anomalia del settore è poi caratterizzata dal fatto che la professionalità qui impiegata si qualifica con 4 un altissimo livello di specializzazione quasi sempre con profilo post-laurea. Eppure le notizie che rimbalzano sul mainstream ci assicurano di una fortissima capacità di originare moltiplicatori di ricchezza inusitata, senza però che se ne conosca una vera identità: il balletto di numeri e percentuali – da cui volentieri mi astengo – è molto significativo. Le uniche cifre che si conoscono dei Musei, assurdo se solo si pensi a quale e quanta è stata nell’ultimo decennio l’informazione e la comunicazione del settore, sono il numero di biglietti venduti ed il numero dei visitatori. Dati che già usualmente venivano rilevati nelle pratiche amministrative delle direzioni generali degli anni cinquanta del Novecento. Sarebbe invece assai significativo conoscere il vero stato delle cose; le reali entità con cui si caratterizza il settore. Conoscere la tipologia, la nazionalità, l’età, il fine dei visitatori; quanto vi è di partecipazione alla Cultura da parte della società insediata e quanto invece ne rimane fuori. Indagini che dovrebbero porsi alla base di un indifferibile riassetto dell’intero comparto.
Non bisogna nascondersi alcune verità
Materiali per strutturare e qualificare il tessuto dei siti monumentali, delle aree archeologiche, delle collezioni museali e farle così funzionare organicamente al territorio. Se fin qui non è stato possibile conoscere con verità utilizzabile la dinamica di queste componenti geografiche, lo si deve anche per quell’assunto critico che abbiamo posto in risalto su Pubblico e Privato. Non bisogna nascondersi alcune verità. Il “blocco” di questo nostro sistema passa infatti per lo più dalla improduttiva e disorganica delega della gestione dei beni. L’incapacità di una indispensabile creatività innovativa e di proposta risiede nei meccanismi e nelle ambigue utilizzazioni delle società in-house, e dei grandi gruppi aziendali. Su tutti, per il caso di Roma, due: Zetema e CoopCultura. Il rafforzamento fisso e irremovibile di questi grandi partner e le viziosità in cui si sono collocate le loro esperienze negli ultimi anni sono evidenti e forse richiedono il ripensamento delle missioni e la revisione delle funzioni assegnate. La Sostenibilità di un piano organico di riqualificazione complessiva di Roma passa comunque in modo fondamentale dal più rapido riassetto dell’Area Centrale e monumentale della città; dalla pianificazione e sviluppo delle attività culturali, dei musei e delle aree archeologiche. Bisogna ad ogni modo prendere coscienza su alcune condizioni che proverò a sintetizzare in un brevissimo elenco: Non si possono affrontare, nel modo in cui sono state condotte, trasformazioni così radicali come quelle attualmente in corso. I cantieri della Metro C (al di là dell’ovvio interesse per la realizzazione di un piano di mobilità generale) sono motivo di un grande disastro geografico e sociale. Non è stato corretto occupare in modo così pervasivo e totale per un tempo così lungo (quasi un venticinquennio) il luogo della propria Immagine. Il gravissimo errore di sottovalutazione ha causato lo svuotamento del senso più prezioso della Comunità verso sé stessa e verso l’esterno. Le aree del passato storico, identità significativamente condivise, tradizionalmente “sacralizzate”, sono state trattate come spazi disponibili, amorfi e compatibili ai pesantissimi processi di modernizzazione forzata. Si è ritenuto, con tutta la banalità del caso, che il principio della “Roma Antica” fosse semplicemente un retaggio passatistico e nostalgico anziché, come inequivocabilmente è stato, un elemento determinante e fondamentale dell’intera geografia urbana. La sua trasformazione, più o meno consapevolmente avvenuta, si sarebbe resa necessaria alla superficiale opinione convenzionalmente costruita sulla immagine dell’antichità che blocca lo sviluppo. La grande preoccupazione che emerge ora è il suo nuovo destino, i gravissimi rischi che incombono sull’area più importante – come usava definirla Antonio Cederna – dell’Universo Mondo. Il pericolo maggiore è quello di una nuova destinazione ad attività di servizio che nell’elevatissimo volume di impatto spaziale ed economico causerebbe di fatto la sostituzione stessa delle sue funzioni culturali.
La teatralizzazione del “rudere”
La trasformazione del sottosuolo ricavato coi lavori per la stazione della Metro C, potrebbe costituire un nuovo articolato grande ambito “multi commerciale” che segnerebbe un momento decisivo di dequalificazione della città intera. La moltitudine generata dall’immagine dei luoghi della Storia, la teatralizzazione del “rudere” veicolata della sua immagine di superficie, l’immaginario collettivo internazionale, conduce quasi naturalmente all’intrigo commerciale. Il falso e l’inganno costruito nell’idea di una “stazionemuseo”, con tutta la sua subdola narrazione, non ha una benché minima finalità sociale col rischio se non le certezze di avere realizzato, fuori tempo massimo anche alla luce di questi ultimi eventi, una stazione inutile ed un museo sotto terra che è, come direbbe una epifenomenologia archeologica, il reintombamento del luogo della propria identità. Fortemente penalizzante, ancora pochi mesi prima che fossero chiuse le nostre città, è il flusso di una invasiva moltitudine turistica dai comportamenti a volte ingovernabili e liberamente intenti alla conflittualità interpersonale e ad una sostanziale ineducazione alla corretta fruizione dei Beni. I record sbandierati nelle prime pagine dei giornali sulle prodigiose performance del Colosseo che finalmente batte il Louvre, è il palese fallimento di tutta l’inadeguata politica che non vi si è dedicata. Il risultato non è infatti un frutto della pianificazione, dei programmi di gestione o dei progetti di crescita culturale ma, è un fatto semplicemente spontaneo dipendente dalla dinamica dei flussi umani della moltitudine globalizzata.
La convenienza delle mete turistiche dipende non secondariamente dall’abbattimento dei costi del “viaggio”. Quello infatti che era il privilegio della borghesia europea, istruita e colta, appartenente ancora per qualche aspetto alla tradizione del Grand Tour, si è dissolto. Il turista della campagna umbra e toscana, del trial culturale per l’Appennino rinascimentale, della Roma dalla Colonna Traiana alla via Appia, fornito di piantina e di ogni guida aniconico informatissima, si è estinto; anzi è stato ucciso e sopraffatto da questa nuova ipertrofica virulenza turistica. Con questa constatazione non si può per altro sperare in un nostalgico ed impossibile ritorno all’epoca aurea di quel turismo, né credere in una autonoma capacità di trasformazione del fenomeno. Bisogna dunque sapere governare queste masse forse in una nuova dimensione che parta dall’assetto organizzativo degli spazi; ipotesi che ancora non si prende tuttavia in seria considerazione. Lo stato dei luoghi presenta una condizione di totale abbandono, mostrando l’immagine di un sistema al collasso. Allo scopo di riassettare questa geografia monumentale che già avrebbe dovuto da molto tempo vivere di una dinamica più funzionale, è quanto meno opportuno identificare un criterio-guida. I punti di debolezza attuali sono i luoghi del grande caos e della enorme caduta libera in cui sono finiti gli spazi e le strutture. Su tali condizioni basteranno qui poche immagini del Colosseo.
Le attuali situazioni del celebre monumento sono fortemente rese critiche da diversi fattori primo dei quali deve ritenersi l’eccessiva presenza dei visitatori e le troppe funzioni insediate come sono ad esempio le esposizioni temporanee. Queste funzioni sono finalizzate alla elevazione del profitto che oggi si valuta in circa 150 milioni di euro annui. La gestione dell’intero pacchetto è stata fin ora affidata a CoopCultura che ha beneficiato di quindicennali proroghe contrattuali.
Oggi finalmente si è aperta una gara per il prossimo triennio reputata in 450 milioni di euro. La conduzione del gestore lascia molto a desiderare ed è evidente nelle scelte di mantenimento del bene tutte finalizzate all’introito monetario ed all’abbattimento dei costi. Le arcate sono da quindici anni ingombrate da bandoni fissi utilizzati per le pannellature delle mostre. La mancanza di un’attenzione al contesto, la irriguardosa considerazione nei confronti della città, è dimostrato proprio dal modo come non sono minimamente considerati gli impatti visivi, ed il trascurato governo degli spazi collettivi esterni al monumento. L’interno non è stato ancora restaurato per non interrompere l’attività economica. L’area intera che gravita intorno al monumento è in una condizione quasi indecente, come l’accesso per i “diversamente abili” ed i presidi metallici utili ad incanalare i flussi della bigliettazione .
Colosseo: Sarebbe di grande importanza e di grande impatto liberare da questi vincoli l’intero monumento ed aprirlo ad un accesso libero seppur regolato da una stretta sorveglianza. Lo si restituirebbe alla città con risultati di grande impatto culturale senza effetti negativi, di compressione all’economia diffusa, anzi aumentandone il valore del “luogo di città” che vi è stato sottratto. La rimozione di questo importante ruolo sociale è infatti avvenuta nella sua duplice relazione: quella della città nei confronti dell’edificio e da questo nei confronti dell’intorno dei quartieri e della sua identificazione collettiva. Il recupero di questo ruolo favorirebbe il riordino di tutto il sistema in rete della Roma Antica necessario alla costituzione di un organico sito geografico: dall’area dei Fori che inizia dalla piazza Venezia fino alla Domus Area, dal Palatino ed dal parco di Colle Oppio per poi proseguire, senza condizioni di continuità, fino al Circo Massimo, alle Terme di Caracalla ed al Parco dell’Appia Antica.
Tutte queste aree dovrebbero poter susseguirsi nei percorsi turistici differenziati distribuendo quello che il carico non più sostenibile dei 24 mila visitatori giornalieri dentro il Colosseo; inutilmente stazionanti per il lungo tempo dell’attesa, intorno agli spazi a ridosso del monumento. La sottrazione e la distribuzione dei visitatori, dovrebbe avvenire attraverso la creazione e l’insediamento di altre importanti polarità museali distribuite nell’area. Le nuove polarità: Tali dovrebbero essere alcuni elementi monumentali oggi abbandonati al margine dell’Area Centrale. L’Antiquarium Comunale e la Ville Silvestri Rivaldi, dovrebbero aggiungersi agli altri nodi topografici attraverso sistemi di percorsi orditi con criteri orientati e determinati. I siti già attualmente attivi come l’area del Palatino, delle Terme di Caracalla ed il Parco dell’Appia Antica, dovrebbero essere ulteriormente valorizzati anche con l’espansione di attività culturali stabili e da eventi organici, compatibili per numero di partecipazione e modalità Le attuali situazioni del celebre monumento sono fortemente rese critiche da diversi fattori primo dei quali deve ritenersi l’eccessiva presenza dei visitatori e le troppe funzioni insediate come sono ad esempio le esposizioni temporanee.
I due compendi dell’Antiquarium e di Villa Silvestri -Rivaldi vivono oggi in un’incomprensibile ed inspiegabile situazione di abbandono dovuta all’incapacità di gestirne i processi di rigenerazione; inefficacia dello Stato e del Comune nei suoi vari livelli politici e amministrativi. Le problematiche incombenti non sembrerebbero per altro tali da doversene considerare una difficile realizzazione. I due bellissimi complessi edilizi di medie dimensioni, sono oggi nello stato di precarietà strutturale dovuta appunto all’abbandono. Il primo è adoperato dal Comune di Roma come deposito. Più di seicento casse contenenti materiale archeologico proveniente dall’area degli scavi storici dei Fori sono ormai da molti decenni stipati disordinatamente nei vari ambienti della “palazzina”. Il sito appartiene ad un ambito urbano di grande qualità ambientale. L’edificio è di proprietà comunale. Molte le funzioni che vi si potrebbero ricavare. Il secondo è un compendio cinquecentesco di straordinario interesse. Costruito da Eurialo Silvestri, camerario di Paolo III e beneficiario del lascito di questa vigna. La Villa ed il viridario furono costruiti su progetto di Antonio da Sangallo il giovane e dalla sua cerchia. L’interno è decorato con una serie di affreschi oggi in gravissime condizioni conservative.
L’immobile appartiene ad un “ente morale” facente capo alla Regione Lazio che ne ha tentato una operazione immobiliare di tipo alberghiero. La Villa, per la sua estrema importanza deve essere annessa al Patrimonio Pubblico. Un primo finanziamento della Giunta Veltroni di 11 milioni di euro, per l’acquisto ed il primo intervento, fu cancellato dalla sindacatura Alemanno. Dopo queste esperienze si sono perse tracce di un programma che era stato fin dagli anni ottanta indicato da Antonio Cederna. Per la destinazione della Villa vennero avanzate sostanzialmente due proposte: la sede della Collezione Torlonia, qualora fosse stata acquisita dallo Stato; la sede della Forma Urbis, la grande pianta marmorea di età severiana che si trova ancora conservata nei depositi e con la sua sistemazione, la più generale realizzazione del “Museo dei Fori”, servizio indispensabile all’introduzione didattica e culturale dell’area monumentale. Non può sottovalutarsi il grande rilievo che la realizzazione di questa grande opera potrebbe avere nella strategia di ripresa e rilancio della città. Il “Grande Museo dei Fori” potrebbe diventare il riferimento essenziale per creare quella diversificazione polare e per la ricucitura del tessuto monumentale antico al tessuto dei quartieri ed al contesto sociale.
La partnership tra Comune e Stato
Nell’aprile del 2015 le attività programmatorie riguardanti gli assetti e le configurazioni istituzionali riguardanti l’assetto dell’area monumentale romana registra una brusca accelerazione. Sono quei casi che la politica a volte costruisce con tutti gli eccessi di fiducia nell’intento di collocarsi in modo più creativo nei confronti delle trasformazioni di lungo percorso; talvolta sollecitate da componenti culturali, universitarie e associative mai però seriamente convinte di un tangibile risultato. La stampa, così sollecitata va incontro a queste roboanti comunicazioni con tutto il profilo dei modi ipotetici da le istituzioni sembrano apparentemente indenni. In quei giorni che celebravano il Natale di Roma si pensò di definire una “piattaforma” amministrativa di grande impegno innovativo: veniva infatti siglato un accordo tra il MIBACT e Roma Capitale per la Valorizzazione dell’Area Archeologica Urbana. Si pensa ad un Consorzio per i Fori di Roma che avrebbe il compito di definire un “Piano Strategico di Sviluppo e di Valorizzazione dell’Area”. Il Consiglio di Amministrazione che ne dirige le attività prevede la presenza di tutti i soggetti implicati come i direttori delle aree archeologiche statali, il Sovrintendente comunale, i responsabili dirigenti di musei e raccolte statali e comunali. Il Consorzio, per poter procedere con agile modernità avrebbe, ca va sans dire, la indispensabile Autonomia finanziaria. Una nuova Era sembra dischiudersi per Roma ed anche se il modello ripercorre l’autarchica dell’Italia col moschetto sembra annunciata la grande svolta dei manager; la Repubblica aziendalista. Ovviamente non è stato così. Ciò può essere d’insegnamento a tutti i futuri propulsori sociali. L’assetto istituzionale per effetto dell’Accordo di Programma partorisce comunque come modifica che la Soprintendenza Archeologica per l’Area Centrale di Roma diventi ora Parco Archeologico del Colosseo con ovvia autonomia finanziaria.
Sul piano degli accordi tra Comune e Stato, pur non potendosi ormai realizzare quell’ambizioso programma, qualcosa sopravvive: un protocollo d’intesa per un unico percorso di visita che non conosca più l’ostacolo dei confini tra aree comunali e aree statali. Le inequivocabili fotografie di gruppo con ministri, assessori, sindaci e dirigenti supremi sigillano, per un’eternità millenaria la magnificentia dello sforzo raggiunto. Di ‘sti tempi non è poco!
Michele Campisi
Michele Campisi
Nato a Sambuca di Sicilia – Agrigento il 4 Settembre 1954, è uno storico dell’architettura, architetto e restauratore. Laureatosi a Palermo con Paolo Marconi ha pubblicato già nel 1980 una storia della nascita della tutela in età borbonica e poi numerosi altri saggi su riviste specializzate come il Bollettino d’Arte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ha partecipato col Ministero e l’Istituto Centrale del Restauro alle attività svolte sui monumenti antichi dell’area centrale di Roma e per oltre quarant’anni ha diretto cantieri su monumenti ed in contesti archeologici. Tutte queste attività sono state condotte nell’approfondimento dei contenuti specifici della disciplina ed hanno dato luogo a “report” e saggi riguardanti teoria e storia del Restauro. Con Cangemi ha partecipato alla redazione del volume : La Villa di Vincenzo Giustiniani a Bassano Romano.