DIBATTITO PIERO SANDULLI GLI OTTANTA ANNI DEL “CODICE DI CAMALDOLI”, RADICE CATTOLICA DELLA COSTITUZIONE – ENZO CHELI LE ORIGINI

Piero Sandulli “scava” le radici cattoliche della nostra Costituzione, Enzo Cheli fornisce un inquadramento complessivo della Carta.

 

PIERO SANDULLI: GLI OTTANTA ANNI DEL “CODICE DI CAMALDOLI”, RADICE CATTOLICA DELLA COSTITUZIONE

“Dobbiamo tornare ad essere pietra di inciampo e lievito di discussione riaffermando i nostri Valori e stimolando, in tal modo, la voglia di tutti tornare ad occuparsi della cosa pubblica, come facevano i giovani riuniti a Camaldoli, battendo la piaga dell’astensionismo, che consente ad altri di fare le scelte che competono a noi e che integrano un diritto, che è anche un dovere, il cui mancato esercizio è un grave vulnus per la democrazia.”

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Gli estensori. – 3. Gli enunciati. – 4. Analisi del tema “istituzioni” nel Codice di Camaldoli. – 5. Considerazioni sull’attualità di alcuni profili del codice. – 6. Conclusioni. Il ruolo dei cattolici.

1. Premessa

Alla fine del 1944 terminarono i lavori di elaborazione del Codice di Camaldoli, che costituisce un primo, fondamentale, apporto dei cattolici alla costruzione della nostra Carta costituzionale. Purtroppo, l’ottantesimo anniversario della pubblicazione di questa importantissima produzione è avvenuto senza che fosse dedicata ad esso particolare attenzione, come invece, si era prefissato il Convegno organizzato dalla C.E.I. (Commissione Episcopale Italiana), nello stesso Monastero del Casentino, nei giorni 21, 22 e 23 luglio 2023 cui ha partecipato anche (nella giornata inaugurale) il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (1) .

Al fine di emendare tale inspiegabile carenza è – a mio avviso – necessario riprendere il prodotto di quei lavori mettendo nella giusta luce il periodo storico nel quale gli stessi furono elaborati, muovendo dalla loro prima ipotesi di lavoro intervenuta, presso il Monastero Benedettino di Camaldoli (FI), nella settimana tra il 18 ed il 24 luglio 1943, ad opera di un gruppo di circa sessanta intellettuali cattolici guidati da Mons. Adriano Bernareggi, assistente ecclesiastico dei laureati dell’Azione Cattolica, coadiuvato da Vittorino Veronese, direttore dell’ICAS (Istituto Cattolico di Attività Sociali). A causa dei rilevanti eventi avvenuti, in quella stessa settimana, ed al portato di essi, i lavori di elaborazione subirono alcune interruzioni e terminarono, con la conclusione della completa stesura del Codice, solo alla fine del 1944 (2) . E’ necessario ricordare che negli stessi giorni del seminario di Camaldoli si verificarono due avvenimenti che sconvolsero il Paese e ne determinarono il futuro. Il 19 luglio 1943 (lunedì) vi fu il bombardamento del nodo ferroviario di San Lorenzo in Roma, che a causa di errori di mira delle fortezze volanti americane, provocò parecchie vittime civili e dette vita, nella Capitale, a sollevazioni della cittadinanza, che, fino a quel momento aveva ritenuto intoccabile la Città eterna. E’ necessario segnalare che solo il Papa Pio XII, accompagnato da Mons. Montini, fu accolto amichevolmente nel quartiere, mentre ciò non accadde per i gerarchi fascisti e lo stesso Mussolini si tenne lontano dai luoghi dell’eccidio. Il 24 luglio (sabato) si tenne, dopo quattro anni, nei quali non era mai stato convocato, il Gran Consiglio del Fascismo, che votando in favore dell’ “Ordine del giorno Grandi”, di fatto, sfiduciò il Governo Mussolini, dopo 21 anni della cosiddetta “era fascista”. Il giorno successivo, domenica 25 luglio 1943, il Re Vittorio Emanuele III, al termine di un incontro ricognitivo dei risultati del Gran Consiglio, avvenuto a Villa Savoia (oggi Villa Ada), faceva arrestare Mussolini (che fu successivamente portato a Ponza e poi sul Gran Sasso) nominando il Maresciallo Badoglio nuovo Capo del Governo. In quella stessa settimana, rivelatasi una delle più importanti nella storia del nostro Paese, questi tre avvenimenti: 1) il seminario di avvio del “Codice di Camaldoli”; 2) il bombardamento di Roma; 3) la caduta del Governo Fascista segnarono profondamente il futuro dell’Italia (è necessario anche ricordare che nella settimana precedente c’era stato lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia).

Alla luce di questa non voluta, ma sintomatica, coincidenza è, dunque, necessario indagare sul portato dell’evento meno noto (il Codice di Camaldoli), ma fondamentale sulla elaborazione della nostra Costituzione. Nella successione degli eventi può quasi ravvisarsi un segno del destino nella settimana in cui si chiude un epoca nefasta prende il via il futuro del Paese (3)

Note

1 Vi è stato, nel mese di luglio 2023, solo un Convegno, organizzato dalla Commissione episcopale italiana e dalla Fondazione Camaldoli Cultura. Alla sezione inaugurale ha partecipato il Presidente della Repubblica il giorno 21 luglio 2023.Tuttavia, il Convegno non ha poi avuto altra eco nel Mondo Cattolico come gli organizzatori, invece, auspicavano.

2 Il testo definitivo fu, poi, pubblicato nell’aprile del 1945 su Studium. L’intera stesura del Codice di Camaldoli è riportata da M. Dau “Il codice di Camaldoli”, editore Castelvecchi, 2015, p. 61.

3 Vedi, sul punto, F. Bertinotti, Il tempo delle ciliegie, in Il Codice di Camaldoli, a cura di M. Dau, Castelvecchi Editore 2015, p. 137. Vedi, inoltre, M. Dau, il Codice di Camaldoli, a cura M. Dau, Castelvecchi Editore 2015, p. 11; G. Ricordi, Estate 1943 il Codice di Camaldoli, in www.approfondisci.

2. Gli estensori.

Al fine di comprendere il portato del Codice di Camaldoli e dei loro estensori cattolici, sulla Carta costituzionale è opportuno muovere da una sintetica indicazione degli studiosi che hanno partecipato ai lavori preparatori, in quella fondamentale settimana del luglio 1943 e ne hanno, poi, elaborato il testo nel corso dell’anno successivo, il tristissimo, per l’Italia, 1944. Si è già detto che coordinatore dei lavori fu Mons. Adriano Bernareggi, assistente ecclesiastico dei laureati dell’Azione Cattolica, è, però, necessario aggiungere che Mons. Bernareggi era, in quel momento, anche il vescovo di Bergamo ed uno dei fautori del recupero della iniziativa politica dei cattolici. Lo spunto era stato dato dall’esame del Codice Belga di Malines, del 1927, contenente alcuni principi in materia di politica economica e sociale sulla scia della Rerum novarum, di Papa Leone XIII (1891), che dovevano essere attualizzati e riferiti all’Italia, dopo la Enciclica, di Papa Pio XI, Quadrigesimo anno, del 15 maggio 1931 e dopo il radiomessaggio del Natale del 1942 di Papa Pio XII. Tra i destinatari delle lettere di convocazione spedite, con la massima riservatezza, il 15 giugno del 1943, dal Presidente dell’ICAS, vi erano, tra gli altri, gli uomini che rappresenteranno buona parte della nuova classe politica del Paese negli anni a venire, primi, fra tutti, Sergio Paronetto e Pasquale Saraceno, che poi coordineranno i lavori della stesura del testo definitivo, nel corso del 1944.

Inoltre, vi erano: il massimo filosofo del diritto del XX secolo, Giuseppe Capograssi, i due ultimi presidenti della FUCI (Federazione Universitari Cattolici Italiani), Aldo Moro e Giulio Andreotti, Paolo Emilio Taviani, Ezio Vanoni, Mario Ferrari Agradi, Vittore Branca, Giorgio La Pira, Laura Bianchini, Orio Giacchi, Guido Gonella, Gesualdo Nosengo, Ludovico Montini, Giuseppe Lazzati, Augusto Baroni e Fausto Montanari. Terminati i lavori, in quella settimana del luglio 1943, tragica e fondamentale per il nostro Paese, la stesura definitiva del testo fu affidata ad un gruppo ristretto dei partecipanti al seminario, coordinato, come detto, da Sergio Paronetto e Pasquale Saraceno. Gruppo che si incaricò di tradurre in un testo definitivo gli enunciati, redatti in termini sintetici ed elaborati a conclusione dei lavori che si interruppero prima del previsto a causa del precipitare degli eventi in quella fatale settimana del luglio del 1943. La stesura finale del Codice di Camaldoli prese poi i mesi della fine del 1943 e l’intero 1944, periodo nel quale l’Italia era divisa in due tra Regno d’Italia (la cui Capitale fu collocata in un primo momento a Brindisi e successivamente a Salerno) e la Repubblica sociale (di fatto emanazione della occupazione nazista del centro-nord d’Italia), per poi vedere la luce nell’ultimo periodo dell’anno 1944 e la sua pubblicazione nel mese di aprile 1945.

3. Gli enunciati.

I lavori di Camaldoli presero le mosse da alcuni enunciati ispirati alla dottrina sociale della Chiesa ed al Magistero degli ultimi due Papi: Pio XI e Pio XII, nonché dall’Enciclica Rerum novarum, di Leone XIII, che poi troveranno piena concretizzazione nei 99 punti del Codice dei quali è opportuno, di seguito richiamare una sintesi dei punti principali in tema di Stato e società civile.

A. Origine della società civile.

1. L’uomo è un essere essenzialmente socievole: le esigenze del suo spirito e i bisogni del suo corpo non possono essere soddisfatti che nella convivenza. Sennonché la convivenza familiare e la solidarietà dei gruppi intermedi sono insufficienti: perché l’essere umano abbia possibilità adeguate di vita e di sviluppo occorre che le famiglie si uniscano tra di loro a costituire la società civile. La quale, perciò, proviene direttamente dalla natura dell’uomo, remotamente da Dio che ha creato l’uomo socievole.

2. La società, però, non si può conservare ne sviluppare senza un principio cosciente e volitivo che ne precisi, in concreto, il fine e vi coordini le attività dei singoli: tale principio è la sovranità che si personifica nello Stato. Per cui lo Stato è pure una formazione dello spirito umano nel senso che mai sorgerebbe se l’uomo non fosse anche spirito, non è però una formazione arbitraria giacché l’uomo è determinante a trarlo all’esistenza da necessità imprescindibili di natura.

B. Natura della società

3. La società non è una unità numerica o la semplice somma di individui che la compongono; è, invece, l’unione organica di uomini, famiglie e gruppi determinata dallo stesso fine, il bene comune e dall’effettiva convergenza delle volontà umane verso la sua attuazione, sotto la guida di un principio autoritario proprio.

4. La società organizzata a Stato non è neppure una unità naturale come sarebbe un organismo vivente; è, invece, una unità d’ordine, per cui i suoi componenti, gli esseri umani, conservano ciascuno una propria consistenza e rispettiva autonomia nell’operare.

5. La ragione per la quale l’uomo non può fungere soltanto da membro nell’organismo sociale è che egli, quale essere spirituale, è preordinato a un fine che trascende ogni umana istituzione, lo Stato compreso; e cioè preordinato a Dio. Per cui se risponde alla natura dell’uomo unirsi quale membro attivo nell’organismo sociale, risponde pure all’essenza della società non assorbire l’uomo fino ad annullarlo; ma la sua ragion d’essere sta nel creargli l’ambiente migliore per il suo perfezionamento integrale.

C. Il fine e i doveri dello Stato.

6. Fine dello Stato è la promozione del bene comune, a cui possono partecipare tutti i cittadini in rispondenza alle loro attitudini e condizioni; bene che i singoli e le famiglie non sono in grado di attuar, giacché lo Stato non deve sostituirsi ai singoli e alle famiglie; bene conforme alla natura dell’uomo, essere formato di corpo e di spirito e preordinato a Dio. Ma una direttiva generale (di giustizia sociale) deve essere sempre la protezione e l’elevazione delle classi meno dotate, salvi i rapporti di giustizia distributiva e commutativa.

7. In concreto lo Stato deve riconoscere e rispettare i diritti inalienabili della persona umana, della famiglia, dei gruppi minori, degli altri Stati, della Chiesa.

I) Persona umana. “Origine e scopo essenziale della vita sociale vuoi essere la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento della persona umana, aiutandola ad attuare rettamente le norme e i valori della religione e della cultura, segnati dal Creatore a ciascun uomo e a tutta l’umanità, sia nel suo insieme sia nelle sue naturali ramificazioni”.

II) Famiglia. Lo Stato organizzando giuridicamente la vita civile deve non solo rispettare la famiglia, ma darvi riconoscimento come parte fondamentale costitutiva di esso; assisterla nell’affermazione e nello sviluppo della propria unità economica giuridica morale e spirituale; fare di essa il centro di molta parte delle sue funzioni culturali, assistenziali, ecc.

III) Gruppi minori. Lo Stato deve rispettare e promuovere, entro i limiti fissati dal bene comune, il formarsi di gruppi e comunità minori quali corpi con ordinamento autonomo dotati di propria personalità e funzione nell’ambito della società civile.

D) Autorità e libertà

8. La sovranità statale proviene da Dio, il quale, creando l’uomo socievole, non può non volere che nella società vi siano gli indispensabili poteri sovrani.

9. La sovranità statale non è illimitata; i suoi confini sono segnati dalla sua ragione di essere che è la promozione del bene comune. Oltre quei limiti, i suoi atti sono illegittimi e perciò privi di forza obbligatoria in ordine ai sudditi.

10. Derivando la sovranità da Dio, i sudditi sono tenuti a obbedire in coscienza ai poteri legittimi.

11. Un’autorità la quale voglia provvedere direttamente a ciò che meglio può essere compiuto per opera individuale, familiare o di gruppi minori, usurpa compiti e diritti che non ha.

12. Per alcuni diritti di libertà civica, in determinate circostanze, il bene comune può effettivamente richiedere limitazioni e rinunce.

13. Le libertà delle coscienze sono una esigenza da tutelare fino all’estremo limite della compatibilità col bene comune.

14. Qualora lo Stato emani una legge ingiusta, i sudditi non sono tenuti a obbedire, ma possono essere tenuti ad attuare quanto la legge dispone per motivi superiori.

E) Lo Stato

15. Lo Stato ha per fine il bene comune. Due funzioni specifiche sue sono:

I) l’organizzazione e tutela del diritto;

II) intervento nella vita sociale.

16. Funzione giuridica. Lo Stato deve anzitutto proteggere e garantire i diritti degli individui e delle collettività a lui sottoposte. La violazione di tali diritti ha una ripercussione profonda e nefasta sul bene comune di cui ha cura lo Stato; al contrario, il rispetto della giustizia e dei diritti che ne conseguono è il primo bene di tutti.

17. “Il rapporto dell’uomo verso l’uomo, dell’individuo verso la società, verso l’autorità, verso i doveri civili, il rapporto della società e dell’autorità verso i singoli debbono essere posti sopra un chiaro fondamento giuridico e tutelati, al bisogno, dall’autorità giudiziaria. Ciò suppone: a) un tribunale e un giudice, che prendano le direttive da un diritto chiaramente formulato e circoscritto; b) chiare norme giuridiche, che non possano essere stravolte con abusivi richiami a un supposto sentimento popolare e con mere ragioni di utilità; c) riconoscimento del principio che anche lo Stato e i funzionari e le organizzazioni da esso dipendenti sono obbligati alla riparazione e al ritiro di misure lesive della libertà, della proprietà, dell’onore, dell’avanzamento e della salute dei singoli”.

18. Lo Stato ha il compito di promuovere positivamente il bene comune. Da ciò non deriva che spetti allo Stato di provvedere a tutto, dovendo tener conto dell’iniziativa privata in quanto strumento efficace per il bene comune.

F) Il campo politico

19. È compito politico costituzionale la creazione degli organi e la designazione delle persone cui in concreto spetti la cura del bene comune.

20. A tale fine, e nelle singole situazioni e condizioni storiche, si dovrà tendere a quella organizzazione politico-costituzionale la quale garantisce il miglior funzionamento delle autorità a servizio dei cittadini, col pieno rispetto dei diritti naturali.

21. È di primissima importanza per il raggiungimento stesso del bene comune, che le decisioni prese abbiano la maggiore consapevolezza e quindi consenso dei cittadini. (Mess. Nat. 1942, n. 99).

22. Ognuno ha da considerare se stesso quale membro attivo nell’organismo politico. Essendo la società civile una comunione, ciascuno deve portare il contributo della propria attività all’azione dello Stato, esercitando con coscienza le funzioni politiche che gli appartengono.

23. Il cittadino è chiamato a dare il proprio contributo al bene comune anche con la propria attività privata.

24. Al diritto dello Stato di esigere i mezzi necessari alla sua vita secondo giustizia, corrisponde nel cittadino l’obbligo di contribuirvi.

25. I singoli sono tenuti a sacrificare se stessi anche fino a rimettervi la propria terrena esistenza, quando fosse necessario per il bene generale della comunità.

26. Il buon funzionamento della cosa pubblica e il rispetto delle stesse libertà civiche costituiscono la somma cura della “politica” ed esigono una formazione politica dei cittadini.

G) Chiesa e Stato

27. Chiesa e Stato hanno due fini diversi. La Chiesa rigenera gli uomini alla vita della Grazia nel tempo e li guida al pieno possesso di Dio nell’eternità; lo Stato mira a provvedere gli uomini di una sufficienza di beni terreni e coopera al progresso in ogni campo.

28. Lo Stato deve riconoscere la missione divina della Chiesa, acconsentirle piena libertà nel suo campo.

4. Analisi del tema “istituzioni” nel Codice di Camaldoli.

Non potendo esaminare diffusamente i tanti temi trattati dal codice (alcuni di rilevante attualità come il decentramento urbano – punto 62, gli elementi del giusto salario – punto 57, il lavoro femminile – punto 60, l’industrializzazione – punto 56, l’uomo e la macchina – punto 63) e dopo aver ricordato che, alcuni punti, il testo risentono, comunque, del periodo storico nel quale esso stato elaborato (quale, ad esempio, il punto 29 relativo all’autorità nella società familiare, oppure il punto 45 in tema di educazione civica) ritengo opportuno fermare l’analisi sul tema, centrale, trattato nel primo capitolo del “Codice”, relativo alle istituzioni ed alla tutela dei cittadini (4) .

La visione di Stato che emerge dalla lettura del punto otto del lavoro, ipotizzato a Camaldoli è ampiamente influenzata dalla dottrina sociale della chiesa ed in particolare dal Magistero di Leone XIII, poi ulteriormente integrato dal pensiero dei suoi successori. Tale visione pone la persona al centro della attività dello Stato chiamato ad “instaurare l’ordine nella molteplicità della società”, organizzando l’umana convivenza. Al riguardo, sono particolarmente significativi i punti contenuti nel paragrafo 9 (fini dello Stato) nei quali si individuano le priorità che lo Stato è chiamato a realizzare:

a) garantire i diritti di tutti gli individui e delle comunità e società che essi formano dirette a realizzare i loro interessi e fini umani, onde assicurare l’armonia e l’azione reciproca degli individui, delle famiglie e delle forze sociali;

b) provvedere agli interessi che sono comuni a tutti, e che soltanto con la collaborazione di tutti possono essere soddisfatti, onde assicurare le condizioni fondamentali del libero sviluppo e della pienezza di vita degli individui, della famiglia e delle forze sociali che da essi legittimamente nascono”.

NOTE

4 Cfr. U. De Siervo, I laureati cattolici e la rifondazione dello Stato, in Il Codice di Camaldoli, a cura di T. Torresi, Edizioni Studium 2024, p. 65.

Dunque, la finalità dello Stato è il bene comune da realizzare mediante “l’impiego delle forze di tutti”: gli individui e le istituzioni. Per realizzare questo fine “lo Stato deve riconoscere come legge indefettibile di ogni attività umana la legge morale ed, in particolare i principi fondamentali dell’ordine giuridico, cioè della giustizia”. Quindi, ciò che lo Stato deve garantire e realizzare è riassunto, al punto 9, dalle seguenti considerazioni:

1) lasciare a tutte le forze e attività che compongono il mondo sociale la libertà nella loro vita, cioè la possibilità di svolgersi secondo le leggi della propria natura;

2) mantenere, perché questa libertà possa esplicarsi, la più esatta eguaglianza degli individui, delle famiglie e dei gruppi dinanzi alla legge; .e cioè impedire che si stabiliscano e si mantengano privilegi positivi o negativi a favore di alcuni e a danno degli altri per ragioni di razza, classe, opinioni politiche, condizioni economiche e sociali e simili. Sono contrari all’essenza stessa dell’uomo e al suo fine, alla legge morale e alla natura stessa dello Stato tutti i tentativi diretti a dar vita a differenze di trattamento tra individuo ed individuo per le suddette ragioni e quindi a differenze di posizioni e di capacità giuridiche sia di fronte alle possibilità d’impiego, di lavoro e di professione, sia di fronte all’uso dei beni materiali, sia di fronte al diritto dell’unione matrimoniale e della famiglia, sia di fronte al diritto di cittadinanza e conseguente godimento dei diritti politici;

3) fare che ogni altro fine concreto che lo Stato si proponga sia subordinato e ordinato al bene comune; e specialmente che sia subordinato e ordinato al bene comune così inteso, l’interesse del corpo sociale preso nel suo tutto: infatti ogni tentativo di tirannia (la quale non è altro che la politica che sopraffa il diritto) si riduce facilmente al concetto di corpo sociale come totalità avente sovranità assoluta su tutti gli altri fini dell’uomo, il che è il massimo ostacolo per gli individui “nel tendere all’acquisto dei supremi e immutabili beni a cui tendono per natura”. Alla luce delle considerazioni che precedono il Codice di Camaldoli, nella sua elaborazione definitiva del 1944, sintetizza nei paragrafi 10 e 11 la ragione fondamentale della legittimità dello Stato, pur non occupandosi della forma di esso, in quanto la scelta tra monarchia e repubblica, nel momento (il 1943) in cui ancora vigeva la “diarchia” voluta dal regime (che trovò la sua fine proprio nel voto della notte del 25 luglio, il quale approvando l’Ordine del giorno, Grandi auspicava il ritorno allo Statuto e la restituzione del potere militare alle mani del Sovrano) appariva ancora troppo prematura. In questi due fondamentali punti si legge:

10. Stato e diritto.

La ragione di essere dello Stato e la condizione fondamentale della sua legittimità è il riconoscimento, il rispetto e la garanzia del diritto della persona umana di conseguire liberamente la sua perfezione fisica, intellettuale e morale cioè della libertà individuale intesa sia come diritto dell’individuo di essere salvaguardato dalle arbitrarie limitazioni nelle proprie facoltà moralmente lecite di muoversi, di agire, di pensare, di vivere e quindi da arbitrari arresti o molestie o offese, sia come diritto di adempiere a tutte le lecite esigenze e tendenze delle attività umane e a tutte le obbligazioni della propria coscienza morale e religiosa. Il diritto consiste nella piena esistenza ed affermazione di questa fondamentale libertà per tutti gli uomini e quindi per le forze sociali; funzione essenziale dello stato è proteggere e tutelare il diritto così inteso.

11. La giustizia sociale compito e fine dello Stato.

Poiché la vera ricchezza e la sola forza della società è nelle energie degli individui l’interesse massimo della società è di fare che tutte queste energie siano portate al massimo sviluppo di cui sono capaci ed impedire che rimangano non svolte e puramente potenziali, per modo che ciascuno eserciti le sue facoltà individuali e sociali ora dando e ora ricevendo per il bene suo e quello degli altri. A questo fine deve cooperare tutta la vita sociale e quindi anche lo stato che ne fa parte. Lo stato vi tende con l’attività con cui mira a realizzare la giustizia sociale, la quale può dirsi compito e fine dello stato, che vi provvede

1) con la sua funzione di tutela dei diritti degli individui, dei gruppi e delle società;

2) con la cura esatta e la esatta gestione di tutti gli interessi comuni a cui è sua funzione provvedere;

3) con la creazione di condizioni generali di aiuto e di sostegno di tutti gli sforzi particolari degli individui, delle famiglie, dei gruppi e delle società, in modo che siano eliminate le situazioni di privilegi derivanti da differenze di classe, di ricchezza, di educazione e simili. Tutto ciò deve essere diretto a rendere individui, famiglie e gruppi capaci di risolvere per proprio conto e con le proprie forze e nella propria autonomia i propri problemi, evitando che le organizzazioni che all’uopo sono create siano volte a trattare e a mantenere gli individui come incapaci di vivere con la propria volontà e sotto la propria responsabilità la propria vita. Deve altresì essere volto a procurare che le naturali disuguaglianze – di attitudini, di capacità, di volontà – fra gli uomini si riflettano quanto più possibile in una organica varietà di funzioni delle persone delle categorie sociali, evitando che lo sviluppo delle possibilità individuali e l’attribuzione delle funzioni sociali sia ostacolato dalla esistenza di privilegi di classe. Il tema della legittimazione dello Stato e le funzioni di coordinamento e di tutela ad esso attribuite, passano tutte per uno snodo fondamentale, la partecipazione dei cittadini, che, nel punto 16, viene definita “dovere fondamentale” perché lo Stato, che si era ipotizzato a Camaldoli, era delle persone ed il suo fondamento era garantire il miglior esercizio della libertà di tutti.

In base a ciò, il punto 18 conclude che “dai principi enunciati consegue il principio fondamentale e riassuntivo, che tutta la organizzazione della vita politica deve essere ordinata al fine di eliminare la violenza e l’arbitrio nei rapporti politici e sociali”. Quindi, uno Stato che non sia invadente e limitante i diritti dei singoli, ma che, neppure, legittimi la violenza della minoranze e della stessa maggioranza (punto 18, comma 2). In definitiva l’idea di Stato che nasce dal seminario di Camaldoli, svoltosi nella cruciale settimana del luglio 1943 che ha cambiato le sorti del Paese, è basata sulla centralità della persona, cui si chiede una ampia partecipazione alla cosa pubblica (senza la interessata e faziosa mediazione nei partiti), uno Stato che garantisce le libertà individuali, che non esercita un potere invadente, nascondendosi dietro una burocrazia incomprensibile, che bandisce le diseguaglianze e che esercita la giustizia in nome del popolo avendo attenzione alla legge naturale ed alla linearità dei giudizi.

5. Considerazioni sull’attualità di alcuni profili del codice.

Dalla analisi del testo del Codice di Camaldoli, elaborato – come detto – nel corso del 1944 e pubblicato nel 1945 con il titolo “Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale”, a cura di un gruppo di amici di Camaldoli, è facile rilevare come molti degli articoli contenuti nel testo del cosiddetto Codice di Camaldoli oggi costituiscono la parte portante della nostra Carta costituzionale. In particolare dalle riflessioni operate dagli studiosi riunitosi a Camaldoli si individuano le basi che hanno poi portato all’emanazione al principio di eguaglianza teorizzato nell’art. 3 della Costituzione. Articolo che costituisce il fondamento e la chiave di lettura dell’intero impianto costituzionale (5).

Dalla costruzione di tale principio, basato sulla centralità della persona è possibile individuare correttamente la funzione dello Stato finalizzato a promuovere la dignità dell’uomo, inteso come essere sociale, che deve trovare nella collettività il suo modo di esprimersi. Alla luce di questi due  primi cardini: eguaglianza e dignità tra gli uomini è possibile operare tutte le successive costruzioni nelle quali deve essere operato un corretto bilanciamento tra l’iniziativa privata e la organizzazione pubblica. Invero, i vari punti del Codice di Camaldoli dedicati alla economia ed al lavoro sono ispirati a questa compresenza della organizzazione pubblica ed alla intrapresa privata. Invero, il prodotto di dette riflessioni è poi stato inserito, dai costituenti, nell’art. 42 della Costituzione, dove è possibile l’iniziativa economica privata ed ad un tempo preservare l’interesse pubblico, anche nei confronti della proprietà quando sussistono “motivi di interesse generale” sempre prevedendo un indennizzo che risarcisca detta compressione (6) .

Anche sotto il profilo della organizzazione statale le riflessioni avviate a Camaldoli e successivamente incrementate, hanno portato ad individuare uno Stato snello nel quale debbono essere presenti la linearità della burocrazia e la chiarezza delle leggi. In buona sostanza l’affermazione che la burocrazia è per l’uomo e non l’uomo per la burocrazia (7) . Anche dal punto di vista dell’educazione a Camaldoli si prevedeva una compresenza dell’istruzione pubblica e dell’iniziativa privata nel settore, circostanza questa che poi ha portato alla emanazione del dettato dell’articolo 33 della Costituzione. Particolare attenzione venne, inoltre, dedicata al tema della famiglia (8) , anche se non si può tacere che molta parte dello svolgimento di tale tema ha risentito del periodo storico in cui dette riflessioni furono operate. Tuttavia, nel nostro impianto costituzionale quelle riflessioni hanno trovato spazio nel dettato dell’articolo 29 con il quale “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Infine, anche se meno curata a Camaldoli, venne affrontata la tematica della giustizia e della tutela delle situazioni giuridiche protette, con un chiaro  riferimento alla legge naturale ed all’affermazione che il diritto di una persona finisce esattamente laddove inizia il diritto dell’altro. Quindi, intorno al neminem ledere era costruito il pensiero degli estensori del Codice di Camaldoli che ha poi portato, nell’impianto costituzionale, al dettato degli articoli 24 e 25. Alla luce di queste considerazioni è, tuttavia, necessario verificare che, nel tempo, vi è stato un appannamento di questi valori, alcuni dei quali sono oggi offuscati da una attività normativa poco lineare e per molti versi “annacquata”, anche in virtù del fatto che il drafting normativo ha, nel tempo, subito un rilevante stravolgimento e la struttura delle leggi appare sempre meno chiara e di più difficile comprensione in quanto eccessivamente foriera di rimandi ed anacoluti. Appare necessario, invece, ritornare all’effettiva sostanza del messaggio di Camaldoli affermandone l’attualità: vale a dire la “centralità della persona”.

6. Conclusioni.

Il ruolo dei cattolici, ripartire da Camaldoli. Nella sua prolusione al Convengo di Camaldoli del 2023 il Presidente della C.E.I. il Cardinale Matteo Zuppi ci ricorda che “il Codice di Camaldoli è diventato il simbolo della capacità di iniziativa dei cattolici per il futuro dell’Italia durante la Guerra, “ripartire da Camaldoli” è un bisogno e una chiamata alla responsabilità per guardare lontano e non essere prigionieri del presente”. Alla luce di queste parole la bandiera issata, con coraggio, dai cattolici riuniti a Camaldoli ed ormai riposta nell’armadio della storia, deve essere, di nuovo, sventolata dai chi, seguendo le indicazioni, sempre più insistenti, del Papa Francesco, deve ritrovare l’orgoglio dei propri Valori nascenti dal messaggio evangelico. E’ giunto il momento, ripartendo da ciò che è ancora attuale del pensiero di Camaldoli, di riportare i valori cattolici e moderati al centro della discussine politica (non partitica, anche perché questi ultimi sono divenuti sempre piu’ frequentemente luoghi di potere,  spesso personale, e non di crescita morale e di discussione) anche rifuggendo il troppo comodo “politicamente corretto”. Dobbiamo tornare ad essere pietra di inciampo e lievito di discussione riaffermando i nostri Valori e stimolando, in tal modo, la voglia di tutti tornare ad occuparsi della cosa pubblica, come facevano i giovani riuniti a Camaldoli, battendo la piaga dell’astensionismo, che consente ad altri di fare le scelte che competono a noi e che integrano un diritto, che è anche un dovere, il cui mancato esercizio è un grave vulnus per la democrazia. Ancora S.E. Zuppi ci ricorda, nella sua prolusione, che Churchill era solito dire: “più riesci a guardare indietro più riesci a guardare avanti”, pertanto ripartiamo dal Codice di Camaldoli ricordando anche le parole del Cardinale Parolin, espresse durante l’omelia, tenuta a Camaldoli il 23 luglio 2023, alla Messa di chiusura del Convegno (9) : “La partecipazione alla crescita democratica della Società civile e delle istituzioni ha oggi bisogno di donne e di uomini cristiani, consapevoli della loro fede, che testimonino, in ogni ambito del vivere comune, la loro ispirazione , i valori ed i comportamenti che la loro fede continua a fermentare, senza i quali questa società non sarà migliore”.

NOTE

5 Vedi, sul punto, M. Cartabia, dal Codice di Camaldoli alla Costituzione, in Il Codice di Camaldoli, a cura di T. Torresi, Edizioni Studium 2024, p. 114.

6 Vedi, sul punto, E. Chiappero Martinetti, L’economia nel Codice di Camaldoli, tra bene comune e giustizia sociale, a cura di T. Torresi, Edizioni Studium 2024, p. 273. Vedi, inoltre, P. Savona, Il Codice di Camaldoli letto da un economista, in il Codice di Camaldoli, a cura di M. Dau, Castelvecchi Edizioni 2015, p. 145.

7 Al riguardo vedi F. Bonini, Il Codice di Camaldoli e lo Stato, in Il Codice di Camaldoli, a cura di T. Torresi, Edizioni Studium 2024, p. 188.

8 Cfr. M. Lucia Sergio, La famiglia tra fascismo e costituente: la svolta del Codice di Camaldoli, a cura di T. Torresi, Edizioni Studium 2024, p. 196.

9 Vedi, sul punto, il Codice di Camaldoli, a cura di Tiziano Torresi, Edizioni Studium, 2024, p. 318.

 


 

ENZO CHELI:  LA COSTITUZIONE ITALIANA

“Il primo problema che i costituenti si trovano a dover affrontare è, dunque, quello del recupero dell’unità del paese per evitare il rischio di una nuova guerra civile. Da qui i continui richiami all’unità che si rincorrono negli atti della Costituente: unità contro l’isolamento internazionale e le clausole inique del Trattato di pace; unità nelle conquiste sindacali; unità contro gli “storici steccati” per la pace religiosa; unità politica e morale considerate il bene più prezioso soprattutto per un paese che la possiede da poco tempo”

 

La costituzione repubblicana è stata approvata, come sappiamo, il 22 dicembre del 1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio del 1948.

Penso sia necessario portare l’attenzione su tre aspetti della nostra storia repubblicana:

  1. a) sulle origini, cioè sulla particolare congiuntura storica che condusse alla nascita di questa costituzione;
  2. b) sul modello, cioè sugli obbiettivi che i costituenti intesero perseguire e sul tipo di società e di Stato che vollero costruire per conseguire tali obbiettivi;
  3. c) sul processo di attuazione costituzionale, cioè sulle vicende che hanno portato nel corso del tempo a tradurre il modello costituzionale nel tessuto vivo e operante del paese.

 

Partiamo dalle origini, cioè dai fattori che stanno alla base di questa costituzione. La nostra costituzione nasce nel dicembre 1947 a conclusione di una delle fasi più travagliate della nostra storia nazionale. Una fase che, nell’arco di quattro anni, a partire dalla caduta del fascismo, vede la fine di una dittatura, gli sviluppi di una guerra mondiale che divide il paese in due tronconi (e che nelle sue ultime fasi assume nel nostro territorio anche i caratteri di una guerra e che, dopo la fine della guerra, intreccia la ricostruzione del paese con la caduta di una monarchia e l’esplosione di forti tensioni sociali.

 

Il paese che i costituenti avevano davanti quando, nel giugno del 1946, iniziano il loro lavoro, è un paese in totale dissesto, un paese lacerato da fratture profonde che le ideologie dei partiti antifascisti riemersi dalla clandestinità vengono a rispecchiare drammaticamente con contrapposizioni non facilmente conciliabili. Il primo problema che i costituenti si trovano a dover affrontare è, dunque, quello del recupero dell’unità del paese per evitare il rischio di una nuova guerra civile. Da qui i continui richiami all’unità che si rincorrono negli atti della Costituente: unità contro l’isolamento internazionale e le clausole inique del Trattato di pace; unità nelle conquiste sindacali; unità contro gli “storici steccati” per la pace religiosa; unità politica e morale considerate il bene più prezioso “soprattutto per un paese che la possiede da poco tempo” (Togliatti). Erano tempi difficili, ma straordinari che favorivano la solidarietà negli animi e la lucidità nelle menti. Giuseppe Dossetti ha descritto molto bene, in anni a noi più vicini, l’eccezionalità di questo clima che caratterizzò i primi passi della Costituente: “Anche il più sprovveduto od il più ideologizzato dei costituenti – ha scritto Dossetti rievocando quei momenti – non poteva dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee, l’affermarsi del marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti ricchi di novità in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e sociale all’interno e fra le nazioni, l’urgere di una nuova solidarietà e l’aspirazione al bando della guerra.”

 

Una situazione, dunque, che impegnava profondamente gli animi e che induceva al superamento delle tragedie della guerra attraverso la ricerca di una nuova unità. Ma al problema dell’unità si affiancava anche nel nostro paese quello dell’impianto di una democrazia moderna, che doveva superare il modello ottocentesco dello statuto albertino ed evitare il pericolo di un ritorno ad esperienze di tipo autoritario. I due schieramenti facenti capo ai tre maggiori partiti presenti alla Costituente – la DC da un lato (con il 35% dei voti e 207 seggi), lo PSIUP ed il PCI dall’altro (uniti dal “patto di unità di azione” con il 39% dei voti e 219 seggi), che complessivamente avevano quindi raccolto oltre il 75% dei consensi – si presentavano fortemente divisi su tutte le grandi questioni politiche del momento (dalla politica internazionale, alla politica economica, alla politica sociale), ma convergevano su queste due esigenze di fondo (il recupero dell’unità e l’impianto di un ordinamento democratico di tipo nuovo) che l’esperienza della guerra di liberazione aveva imposto come obbiettivi comuni a tutte le forze della Resistenza. La sfida maggiore che la Costituente si trovò a dover affrontare fin dai suoi primi passi, fu, dunque, quella di come costruire una democrazia moderna in un paese diviso, in un paese che aveva perso, o meglio, che non aveva mai veramente raggiunto (attraverso l’esperienza incompleta del Risorgimento) l’unità nazionale. Un paese che, per la sua forte disomogeneità, si presentava, di conseguenza, poco incline ad accettare quei principi che stanno alla base di ogni democrazia, cioè quei principi di tolleranza, di reciproco rispetto, di piena legittimazione tra tutte le forze in campo su cui si fondano i veri regimi democratici.

.Questo obbiettivo di costruire una democrazia moderna in un paese diviso, ancorché difficile, fu però alla fine raggiunto attraverso l’accettazione da parte delle maggiori forze di una sorta di accordo tacito che portò, fin dalle prime fasi del lavoro della Costituente, a distinguere nettamente le questioni costituzionali dalle questioni di politica contingente che allora si ponevano; la realizzazione di un fine storico qual’era quello della ricomposizione delle basi unitarie del paese attraverso l’adozione di un modello condiviso di costituzione dai problemi quotidiani della ricostruzione (la sicurezza, l’ordine pubblico, la ripresa dell’attività produttiva), problemi che, nel primo anno della Costituente, furono affidati alla cura di governi rappresentativi dell’unità delle forze antifasciste del CLN e che, dopo la crisi politica del maggio del 1947 (con l’uscita delle sinistre dal governo), furono gestiti da una maggioranza rappresentata da un governo centrista imperniato sulla DC. Quest’accordo tacito che maturò sui banchi della Costituente portò, così, a distinguere la prospettiva storica entro cui la nuova costituzione andava collocata dalla prospettiva più strettamente politica, legata alle contingenze dei problemi della ricostruzione: distinzione che consentì per gradi di far nascere quel patto costituzionale (ma alcuni parlarono criticamente di compromesso costituzionale) tra le maggiori forze espressione delle diverse aree culturali (la cattolica democratica, la marxista e la liberale) rappresentate nell’Assemblea e su cui la costituzione venne, alla fine, impiantata. Questo portò alla costruzione di un assetto costituzionale come prodotto di un patto di “lunga durata”, costruito più per le generazioni future che per le presenti: ad una costituzione, cioè, improntata ad una visione “alta” dei principi, dei valori e delle regole su cui la nuova democrazia repubblicana doveva essere fondata. Ed è proprio questa visione “alta” (o “presbite”, come l’avrebbe definita Piero Calamandrei in un famoso intervento nella discussione generale sul progetto di costituzione) che spiega il paradosso della nascita di questa carta. Paradosso che si esprime nel fatto che, alla fine del 1947, questa costituzione veniva approvata con una votazione quasi unanime (con 453 voti favorevoli e soli 62 contrari), proprio quando l’unità delle forze antifasciste presenti nel CNL (che il 2 giugno 1946 aveva portato alla vittoria della Repubblica e alla nascita della Costituente) si era ormai spezzata con l’indurimento della “guerra fredda” e con la nascita di un governo (il quarto governo De Gasperi) che aveva condotto all’esclusione delle sinistre dalla maggioranza: un’esclusione, va ricordato, che sarà destinata poi a durare, in relazione alle vicende del quadro internazionale, oltre quaranta anni, e che caratterizzerà fin dall’inizio la nuova democrazia come una democrazia “incompiuta” o “bloccata”, cioè sottratta alle normali regole dell’alternanza per i ruoli precostituiti e immutabili assegnati a maggioranza e opposizione.

 

L’eccezionalità del risultato di questo voto finale – in piena controtendenza con il quadro politico che era andato emergendo nei mesi finali della Costituente – trova sicuramente la sua spiegazione sul piano di quello che allora fu definito (da Pietro Nenni) lo “spirito del 2 giugno”, uno spirito che scaturiva dal permanere nel tessuto sociale della forza di quei valori di solidarietà che avevano ispirato la Resistenza e che inducevano alla ricerca di una nuova etica civile comune (sempre Calamandrei parlava della ricerca di una “nuova patria”), attraverso cui si tendeva naturalmente a superare le soglie della politica per avvicinarsi, appunto, alle dimensioni della storia. 4. E vediamo ora il modello che venne a scaturire dal “patto costituzionale”. La larghezza del consenso che il testo della costituzione era riuscito a raccogliere nel momento della sua approvazione finale nasceva certamente dalla visione di largo respiro che i Costituenti avevano inteso perseguire, ma nasceva anche dalle caratteristiche del modello che si era giunti a definire in base al “compromesso” raggiunto. Queste caratteristiche, fissate nei principi fondamentali enunciati dai primi dodici articoli della carta, possono essere riassunte nei punti seguenti:

  1. a) Sul piano della forma di Stato l’Italia è una Repubblica democratica, perché in questa forma, la sovranità appartiene al popolo, cioè all’insieme dei cittadini. Ma il popolo, ai sensi dell’art. 1, non esercita la sua sovranità incondizionatamente, bensì “nelle forme e nei limiti della costituzione”. Al di sopra di tutto – anche del popolo – sta dunque la costituzione. Di conseguenza la nostra non viene configurata come una “democrazia maggioritaria” – dove alla maggioranza è consentito far tutto, anche cambiare a suo piacere la costituzione – bensì come una “democrazia costituzionale”, dal momento che la maggioranza, cui spetta il governo del paese, deve, nell’esercizio dei propri poteri, in primo luogo rispettare i principi e le regole fissate dalla costituzione. A garantire questo rispetto stanno la “rigidità” della costituzione – che non può essere modificata con leggi ordinarie – e la presenza di organi di garanzia non dipendenti dalla maggioranza, quali il Capo dello Stato, la Corte costituzionale, l’insieme dei giudici appartenenti ad un potere giudiziario indipendente dal potere politico. La costituzione nasce, dunque, come un “sistema di limiti alla maggioranza” (Grisafulli) garantito da un forte bilanciamento tra poteri d’indirizzo e poteri di controllo e garanzia.
  2. b) Al centro dell’ordinamento viene posta la persona umana (la persona ancor prima che il cittadino) con i suoi diritti inviolabili e i suoi doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2). Il sistema delle libertà che viene costruito intorno alla persona si ispira ad un principio di “socialità progressiva”, che muove dall’individuo per allargarsi alle formazioni sociali, dove si sviluppa la personalità umana: la famiglia, la scuola, la confessione religiosa, la comunità del lavoro, il sindacato, il partito. Si afferma così una visione che rovescia la costruzione autoritaria propria del fascismo relativa al rapporto tra Stato e persona: è lo Stato che vive ed opera in funzione della persona e non viceversa.
  3. c) Tra i valori fondativi della Repubblica la prima posizione è assegnata al principio di eguaglianza affermato dall’art. 3. Questo principio è inteso sia in senso formale (come eguaglianza di fronte alla legge), sia in senso sostanziale (come eguaglianza nelle opportunità e nei punti di partenza). Profilo quest’ultimo che impone alla Repubblica di intervenire attivamente per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. In questa definizione, che univa la visione marxista con quella cristiana, l’uguaglianza in senso sostanziale veniva così collegata alle forme e agli strumenti della partecipazione. Particolare rilievo in questo quadro assumeva “l’eguaglianza senza distinzione di sesso”, con il riconoscimento della parità dei diritti tra uomo e donna nella famiglia, nel lavoro, nell’elettorato attivo e passivo, nell’accesso agli uffici pubblici.
  4. d) Alla base della “costituzione economica” viene posto il lavoro, riconosciuto, dall’art. 1, come fondamento della Repubblica. Collocando alla base dell’ordinamento il lavoro si intendeva non solo dare fondamento ad uno “Stato sociale”, ma anche “invertire – come rilevava Costantino Mortati – il valore attribuito ai due termini del rapporto proprietà-lavoro, conferendo la preminenza a quest’ultimo sul primo”. Da qui il riconoscimento, nell’art. 4, di un “diritto al lavoro” attribuito a tutti i cittadini e correlato all’obbligo per lo Stato di promuovere, attraverso una politica economica diretta a massimizzare l’occupazione, le condizioni in grado di rendere “effettivo” questo diritto. Da questa piattaforma scaturiva la definizione di quei diritti economici e sociali che vengono trattati nei titoli II e III della prima parte della costituzione (forse uno dei capitoli meglio riusciti del disegno costituzionale) al fine di tutelare il lavoro e le condizioni di vita dei lavoratori: dai principi relativi alla “giusta retribuzione” legata alle esigenze di libertà e dignità del lavoratore e del suo nucleo familiare (art. 36) all’esigenza della formazione ed elevazione professionale dei lavoratori (art. 35); dalla tutela privilegiata riconosciuta al lavoro delle donne e dei minori (art. 37) al diritto al mantenimento ed alla assistenza sociale per gli inabili al lavoro (art. 38); dalla libertà dell’organizzazione sindacale (art. 39) al diritto di sciopero (art. 40). Diritti questi che, insieme con quelli posti in tema di proprietà ed impresa, venivano a tracciare, con grande chiarezza, la cornice di quella “economia sociale di mercato” di cui oggi, nella prospettiva della crisi economica mondiale determinata dal fallimento del liberismo deregolato, si torna a parlare con tanta insistenza.

Infine, sul piano territoriale, la Repubblica viene configurata come uno Stato regionale che si ispira ai principi dell’autonomia e del decentramento (art. 5), principi che diventano operanti attraverso i poteri non solo amministrativi, ma anche politici assegnati alle Regioni (che dispongono di un proprio potere legislativo) ed agli altri enti locali. I costituenti sono consapevoli – come viene sottolineato nella relazione al progetto – che rispetto alla tradizione risorgimentale questa “è l’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione” e che essa “può avere portata decisiva per la storia del paese”. Sempre nell’ambito dei principi fondamentali altri valori fondativi vengono individuati nella laicità dello Stato (art. 7 e 8), nella promozione della cultura e della ricerca (art. 9), nel ripudio della guerra, nella possibile rinuncia a quote di sovranità statuale a favore di ordinamenti sovranazionali volti a garantire la pace e la giustizia fra le Nazioni (artt. 10 e 11). Attraverso la formulazione di questi principi i costituenti venivano così a tracciare le linee portanti di una forma di “Stato costituzionale” del tutto nuova nel panorama europeo e mondiale, molto più avanzata dei modelli di “Stato liberale di diritto” e di “Stato sociale” che avevano caratterizzato la storia del costituzionalismo occidentale nel XIX e nel XX secolo.

 

 

 

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